Luciano Re Cecconi

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Condan
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Luciano Re Cecconi

05/10/2019, 11:39

Quanto amore misto a tristezza e malinconia quando ne sento parlare.

Che Lazio incredibile.

Che personaggi! Che storie!


Complice un bellissimo pezzo su La Repubblica apro il topic in suo onore.

Questo il link all'articolo.
https://www.repubblica.it/dossier/sport ... P1-S4.4-T1
Cliccateci e regalate numeri all'articolo perchè si parla di Lazio.
Tutto viene misurato in quest'epoca digitale.
Facciamogli fare i numeri, perchè poi non ci lamentiamo se non si scrive di Lazio.
Dal 30 di settembre scorso io lo sto aprendo più volte al giorno.

di MARCO RUFFOLO

Il '68, la politica e la scoperta di un nuovo eroe: Luciano Re Cecconi

30 dicembre 1973, la Lazio batte il Milan e lo scudetto diventa un traguardo di cui la squadra allenata da Maestrelli è consapevole. "...Lo vedo ancora con gli occhi dei ragazzini alle prese con le figurine dei loro miti. Ma non me ne vergogno affatto..."


Devo ammetterlo: il mio pur piccolo e adolescenziale Sessantotto mi aveva malinconicamente allontanato dallo stadio, appuntamento forse troppo disimpegnato per il clima di quei tempi, segnato dalla spasmodica attesa che qualcosa di sconvolgente stesse per smuovere la grande palude della politica, non solo in Italia. Mi limitavo così a seguire la Lazio tramite le voci familiari di Ciotti e Ameri, da solo, sul divano dell’ingresso di casa dei miei nonni, mentre genitori e parenti smaltivano tra chiacchiere e pennichelle il sovrabbondante pranzo domenicale. Eppure il mio esordio a un passo da quel verde abbagliante che si apriva come un palcoscenico irreale mentre salivo la gradinata della Tevere, in un freddo Lazio-Bologna del ’67, mi aveva letteralmente stregato. Accompagnato da mio padre (laziale per via di Piola e dei colori olimpici) andavo a vedere una squadra esile esile, con Cei, Pagni, Zanetti e il Gaucho Morrone, che tuttavia riuscì incredibilmente a battere il grande Bologna, per la verità un po’ ammaccato dalla umiliante batosta coreana: ai Mondiali dell’anno precedente i bolognesi costituivano infatti il fulcro della Nazionale. Non a caso, “Ah coreani!” era l’insulto più frequente che si sentiva in quell’Olimpico sbandierante di celeste, fatto di padri con cappelli da muratore e sfilatini con mortadella. Ma non fu quella la mia partita della vita.

Dal ginnasio al liceo, vedevo intanto lo spirito del Sessantotto svanire rapidamente, la confusa allegria libertaria soppiantata dal catechismo dottrinario del gruppi extraparlamentari. La fantasia sostituita dalla liturgia. Nello spazio lasciato dalla delusione politica tornò a scalpitare in me - questa volta definitivamente e in misura sempre più preoccupante - la sciocca, nobile, demenziale, autentica, masochistica passione del tifoso. Aiutato, in questa metamorfosi, da una Lazio completamente rifondata, che nel ’72-73 salì in serie A e arrivò a un passo dallo scudetto, giocando “all’olandese”. Quell’estate, dopo la maturità, convinsi il mio amico di infanzia Fabrizio, che per il calcio non mostrava in realtà alcun particolare interesse, a venire con me qualche volta allo stadio. E lui, che aveva bisogno ancora più di me di disintossicarsi dopo una lunga esperienza a Lotta Continua, accettò. Vedemmo insieme un Lazio-Novara di Coppa Italia, dove per qualificarci avremmo dovuto vincere con almeno quattro gol di scarto: era la prima volta che vedevo giocare il pazzo squadrone di Maestrelli. Vinse sei a zero, uno spettacolo che non avevo mai visto. Mi colpì la forza trascinante di una mezzala dalla chioma bionda. E il mio tifo diventò euforia. Euforia solo momentaneamente interrotta dalla follia di Lazio-Ipswich, partita falsata da un arbitro visibilmente ubriaco e macchiata dalla finale “caccia all’inglese” dei giocatori laziali.

Il 30 dicembre ‘73, eccomi ancora lì sugli spalti della Tevere a seguire una squadra già in testa alla classifica ma alla quale manca ancora uno strappo, un balzo in più, per fare credere veramente nello scudetto. Piove ma non troppo. Lo stadio si riempie fino all’inverosimile e tra quegli ottantamila c’è la consapevolezza che questa può essere la partita della svolta. Si sta più in piedi che seduti. La Lazio macina il suo gioco: la mobilità di tutti nessuno escluso, avanti e indietro, una specie di coreografia che disegna sul campo rapide traiettorie, improvvisi triangoli. E’ l’anticipazione di un gioco molto poco italiano. Quattro difensori dinamici davanti a un portiere che ispira sicurezza, e al centro una solidissima cabina di regia con Frustalupi e Nanni. In attacco: la classe di D’Amico, l’agilità di Garlaschelli e l’ariete Chinaglia. Ma poi c’è lui, l’uomo-ovunque, Cecco il saggio, “l’anti-eroe silenzioso”, come lo chiamerà Carlo D’Amicis, appassionato autore di “Ho visto un Re”.

Luciano Re Cecconi è davanti a me, e io, che ho già compiuto diciott’anni e dovrei dare prova di quella maturità che ho appena acquisito, lo vedo ancora con gli occhi dei ragazzini alle prese con le figurine dei loro miti. Ma non me ne vergogno affatto. Lui corre con i suoi tre polmoni. Forza e tecnica. E’ dappertutto. Davanti a lui c’è un altro macinatore di gioco, Romeo Benetti. D’Amicis racconta che nell’intervallo di un successivo Milan-Lazio, dovettero portargli la bombola d’ossigeno perché non riusciva a stare dietro al maratoneta biancoceleste. La partita non ha attimi di tregua. Rivera e compagni soffrono la manovra corale della Lazio, e rispondono con pericolosi contropiedi. Ma a fermare Bigon ci pensa Pulici. Tira Chinaglia, tira Nanni, e trovano un Vecchi formidabile tra i pali milanisti. Manovra corale, sì, ma il mio sguardo va permanentemente a cercare quella chioma chiara in perenne movimento, che non può non risaltare sul prato di un Olimpico appesantito dalla pioggia. Sento che potrebbe essere lui a scardinare la difesa rossonera. Ma forse il mio è solo l’ingenuo wishful thinking di un ragazzino che cerca di imporre il suo Mito, quello di un campione sobrio e silenzioso, assai diverso dalla lazialità arrembante del suo opposto: lo sfrontato Chinaglia, quello che dopo il gol corre verso la Sud con l’indice sfidante.

Ma lui, Luciano, non sembra darmi retta. E poi non è lui a dover finalizzare le azioni. Fa tutto il resto e lo fa con un’energia inesauribile: dispensa passaggi, sradica palloni, rientra, torna avanti, taglia il campo decine e decine di volte. Questo, in fondo, è quel che gli si chiede. Inoltre lo zero a zero non è affatto un brutto risultato e al novantesimo sembra ormai acquisito. Poi… Poi maturano improvvisamente quegli eventi che hai immaginato mille volte nei tuoi sogni infantili ma che a quel punto non ti aspetti più. Maturano senza particolari segnali premonitori, non come la misteriosa cabala del nubifragio di Perugia che ventisette anni dopo schiuderà la strada al secondo scudetto laziale. Un comune fallo sulla trequarti di Anquilletti, una trequarti versante Montemario, dunque difficile da inquadrare dalla Tevere. Aguzzo la vista. Quell’azione, che seguo confusamente da lontano, la rivedrò decine di volte in tv, studiandola con meticolosità, squadernandola in tanti preziosi fotogrammi. Chinaglia cede la palla a Frustalupi e il regista la lascia scorrere un po’ avanti prima di battere la punizione.

Sguardo alto a fotografare l’area milanista. Davanti a lui c’è Rivera che però non marca nessuno, forse si prepara a ribattere in contropiede la punizione. Ma subito alla destra di Rivera c’è lui, Re Cecconi. Passeggia quasi solitario a pochi centimetri dalla lunetta. Guarda Frustalupi e tra i due scatta l’intesa. Luciano trasforma improvvisamente la sua sorniona passeggiata in uno scatto bruciante, sette magiche falcate (le conterò successivamente davanti al ralenti dell’azione) mentre il regista gli detta un perfetto passaggio filtrante, e con l’ultimo passo libera il destro, quasi di punta, per l’infilata imparabile sul primo palo. Nel momento in cui mi unisco all’urlo possente degli ottantamila, mi sembra di aver cambiato da solo in quella manciata di secondi il verso della Prevedibile Realtà. Come lo avessi preparato per tutta la partita, con un lavorio dell’animo, silenzioso ma determinato come il maratoneta di Nerviano. Mai sentito un boato così. Ed è così, con quell’interminabile urlo di gioia collettiva, che voglio ricordare Cecco, attraverso la mia (e la sua) partita della vita, mentre salta con le braccia al cielo, niente a che fare con i gestiti isterici, aggressivi e rancorosi di molti campioni di oggi. Lo voglio ricordare mentre piange (lui che non si commuoveva mai) e consegna alla Lazio la certezza che le mancava: questa volta sì, il primo scudetto della sua storia è finalmente a portata di mano, è quasi già scritto, e quel gol a sei secondi dal fischio finale è più forte di tutti i possibili perfidi scherzi del destino.

Da allora ho fatto in modo con tutte le mie forze che il ricordo del dolore che quattro anni dopo mi avrebbe stampato addosso la notizia della sua morte assurda, scolorisse rapidamente per ridare la precedenza a quell’attimo magico e irripetibile. Per la cronaca, il mio amico Fabrizio balzò in piedi insieme a me urlando, prima e ultima volta. Il calcio, evidentemente, non fa per lui. E quando durante un successivo derby venne allo stadio e si mise a leggere il giornale durante la partita, decisi che non lo avrei più portato. Ma, viste le “sofferenze” a cui ti sottopone il tifo, forse - anzi sicuramente - ha ragione lui.



E poi... questo, molto più sconsolate e tragico de Il Fatto Quotidiano.
https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/0 ... n/1345011/

Re Cecconi, il mistero continua?

di Maurizio Martucci

A testa bassa il terzino da Scorzè, in dribbling sulla certezza, spericolato ostacolo nell’intreccio tra cronaca giudiziaria e nera, a rischio autogol: “Qualcuno ha stravolto questo episodio”. Sussurri maligni, omissioni, tentennamenti e sospetti legittimi tra confessioni tardive, incomprensioni e ricordi posticipati, amnesie riesumate fuori giuramento. Col senno di poi: “Qualcuno ha stravolto questo episodio”.

Questo qualcuno non è solo l’alibi del collegio difensivo, discrimine tra l’onta del burlone e il fango guascone sulla memoria del Saggio. L’angelo biondo. “Quel giorno non ci fu nulla di premeditato”. E allora? Riscriverne carriera da Re, revisionandone morte da Cecconi, per qualcun altro è invece la riconquista della verità calpestata, oltrepassando pantomime e tranelli in toga, ideologicamente afflittivi, da Un giorno in Pretura: Roma, 18 Gennaio 1977, il grande bluff è stato lo scherzo, tesi priva d’appello, montata tra grossolani equivoci, goffe incomprensioni e corsivi retorici, inchiostro perbenista su giornali tronfi di alibi politicamente corretti: “Se fossi morto io non avrei saputo perché. E’ la frase più cruda che posso dire per spiegare il mistero di quei tragici secondi ai quali non so dare spiegazione”. (E uno: Bingo!)

“Se fossi morto io” è sfogo liberatorio 1994, la notizia sfuggita al titolista de L’Unità, il sussulto postdatato, mimetizzato, pronunciato a mezza bocca dal Cavaliere al Merito Pietro Ghedin, vice di Trapattoni coach azzurro, ottime entrature Figc, oggi Ct della nazionale di Malta, ieri terzo in fila indiana nella scia di sangue sul pavimento della Gioielleria Arte Orafa Tabocchini. Davvero sulla Collina Fleming la pistola gliela puntarono in volto prima a lui. Perché? Mani fuori dalle tasche, “Se fossi morto io” mostrò l’altra faccia, girando spalle e memoria al morto: non s’è ancora mai capito il perché. “Si è scritto molto, si è parlato tanto e a volte non bene. Qualcuno ha stravolto questo episodio, evidenziando cose non vere di Luciano. Quel giorno non ci fu nulla di premeditato, di previsto. Lo ripeto: se fossi morto io non avrei saputo perché”.

Ecco l’ultima scena, una manciata di secondi come un thriller mozzafiato: erano tre. Entrano nel negozio. Al centro stava Cecco, silente, polmone di fascia destra prima Lazio tricolore. Davanti Giorgio Fraticcioli, profumiere, capofila, testimone oculare da frase choc, agli atti, sbrigativamente dimenticata: “Io non ho sentito Re Cecconi pronunciare la frase… è una rapina!” (Bingo e due!). S’udì ebbene una Walther 7,65, il tonfo di una automatica con cane sensibilizzato del tipo spara appena sfiorato il grilletto, la bocca di fuoco di Bruno Tabocchini, omicida per legittima difesa putativa, moglie all’Avvocatura dello Stato, assolto tra polemiche e applausi, ossessionato da incubi per scippi e rapine di vite extraparlamentari, gang in autofinanziamento, mani armate da anni di piombo. “Quando si tira fuori la pistola, non c’è tempo per pensare… bisogna agire!” Spingendosi un po’ più in la, Tabocchini confessò pure che Re Cecconi “non ha fatto nulla che mi potesse far pensare a una rapina!” (Bingo e tre!)

“La motivazione della sentenza è stata giuridicamente e tecnicamente scorretta. Il tribunale pervenne al suo convincimento omettendo di valutare dovutamente tutti gli elementi emersi”: per il pm Franco Marrone il verdetto del giudice di prime cure chiedeva riforma. La Procura romana preferì declinare. Pietra tombale sul caso, persino per i tifosi più afflitti, fino a Gigi Martini, l’anti-eroe, il comandante tutto d’un pezzo: “Non ci fu nessuno scherzo – ammise il gemello biancoceleste – e Ghedin non sentì Re Cecconi parlare. Di questa ricostruzione sono sicuro al cento per cento”. Il mistero è risolto.

Retroscena: forse quel qualcuno 38 anni fa si fermò a contare fino a 90. Nel calcio il minuto del fischio finale, senza recupero. Nella smorfia napoletana, la rappresentazione del simbolo della paura. Che non ha scalfito l’aura mite di moto perpetuo, Luciano Re Cecconi in eterno riposo a Nerviano, senza ricorso, muto e sepolto, all’ultimo stadio di Italia-Malta. Roba da nazionali ancora lutto al braccio: siamo seri, i conti non tornano. Altro che scherzo…
Ultima modifica di Condan il 06/10/2019, 11:59, modificato 1 volta in totale.
foketto
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05/10/2019, 22:33

no vabbè... mi fermo al primo articolo,ho il cuore che batte come un tamburo. le gambe molli.

l'emozione che resta dentro è senza fine.

Cecco. Forza LAZIO,sempre.
Questa Maglia quando ti entra nel cuore lo avvolge e ne assume le sembianze. Ma che ne sanno gli altri... (Fefè).

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